lunedì 12 settembre 2011

11/9/2001: serviva il pretesto necessario


LA VERA STORIA DELLA GUERRA IN AFGHANISTAN
le risorse energetiche e il controllo dell’Asia Centrale
di Vladimiro Giacché (articolo scritto tra luglio/agosto 2002)
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“Dopo la sconfitta dell’Unione Sovietica nella Guerra Fredda, Washington - con l’aiuto di Al-Qaeda - sta stabilendosi in Asia Centrale”
(M. Thompson, “Letter from Kyrgyzstan: the US Moves In”, Time, 27 aprile 2002)

“Non ricordo nessun precedente storico di una regione divenuta così all’improvviso talmente importante da un punto di vista strategico come la regione del Caspio”(dichiarazioni rese nel 1998 dall’attuale vicepresidente USA Dick Cheney e riportate in M. Cohn, Cheney’s Black Gold: Oil Interests May Drive US Foreign Policy [!], in the Chicago Tribune, 10 agosto 2000 [!])

L’Asia Centrale “offre opportunità di investimento nella scoperta, produzione, trasporto e raffinazione di enormi quantità di risorse di greggio e gas naturale... Il Kazakhstan è un nuovo Kuwait” (Oil & Gas Journal, 10 settembre 2001)

“L’importanza dell’Afghanistan dal punto di vista energetico nasce dalla sua posizione geografica di potenziale rotta per il transito di petrolio e di gas naturale dall’Asia Centrale al Mar Arabico”(US Energy Information Agency, settembre 2001)

“Sino a tre mesi fa era impensabile che [il percorso per il trasporto del petrolio dall’area del Caspio] passasse attraverso l’Afghanistan per poi sboccare sulle coste del Pakistan e dell’India”(D. Tonello, “La nuova frontiera dei petrolieri” in Borsa & Finanza, 22 dicembre 2001)

“La situazione geopolitica è cambiata e gli Stati Uniti sono diventati il terzo Paese confinante dell’Asia Centrale”(Y. Karin, esperto di scienze politiche del Kazakhstan: dichiarazione riportata sull’Economist, 19 gennaio 2002)
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Il 30 maggio 2002 è stato un giorno importante. Quel giorno, infatti, è avvenuta la firma solenne di un trattato trilaterale tra Turkmenistan, Afghanistan e Pakistan. Oggetto del trattato: la costruzione di un gasdotto lungo 1.500 chilometri, che porterà il gas estratto dai giacimenti di Daulatabad, in Turkmenistan, sino a Gwadar, in Pakistan, passando per l’Afghanistan. Si tratta precisamente del gasdotto a cui “lavorava” la compagnia americana Unocal sin dai primi anni Novanta. Questa notizia, che invano cercheremmo sui giornali italiani, ci racconta la vera vittoria della vera guerra che è stata scatenata sull’Afghanistan. [1]

Il reale scopo della guerra in Afghanistan è infatti rappresentato dalla possibilità di controllare aree strategiche dal punto di vista geopolitico e del controllo dei flussi delle materie prime. L’Afghanistan fa parte appunto di una di queste aree. Perché il suo territorio costituisce una via di transito per le risorse energetiche dei Paesi dell’Asia Centrale. Perché si trova in una regione di cerniera tra Cina e Russia. Perché è un punto di passaggio strategico tra Europa ed Asia - e, come ha detto Brzezinsky qualche anno fa, “tutti condividono il presupposto che l’Eurasia sia il centro del mondo e che chi controlla l’Eurasia controlli il mondo”. [2]

La cosiddetta “guerra al terrorismo” ha per l’appunto consentito agli USA di porre un’ipoteca su quest’area fondamentale. Il fatto di aver imposto la propria presenza diretta in quest’area rappresenta per gli USA il secondo vero grande successo di questa guerra, dopo il rilancio delle spese militari (che rappresentano, per così dire, un “successo” a sé stante in quanto consentono di far ripartire il settore militare USA, uno dei settori trainanti dell’economia americana). [3]
Proviamo ad esaminare più da vicino la questione, a partire da una stima delle risorse energetiche presenti nell’area.

1. Le risorse energetiche dell’Asia Centrale
Sono davvero così importanti queste risorse? Sì. Secondo stime pubblicate nell’agosto del 2000 dall’Institute for Afghan Studies il valore delle riserve petrolifere dei Paesi dell’Asia Centrale che circondano l’Afghanistan (Azerbaijan, Kazakhstan, Turkmenistan e Uzbekistan) si aggira tra i 2.500 e i 3.500 miliardi di dollari: non per nulla l’articolo in questione recava un titolo come “Le nuove miniere d’oro dell’Asia Centrale”! [4] Oggi si parla di 110 miliardi di barili di petrolio contenuti nel solo Mar Caspio, che ne farebbero la terza riserva mondiale, dopo l’Iraq (113 miliardi) e l’Ara­bia Saudita (262 miliardi). [5]

I paesi più ricchi di petrolio sono il Kazakhstan e l’Azerbaijan. Ma nell’area esistono enormi giacimenti anche di gas naturale: a questo riguardo il paese più ricco è il Turkmenistan, seguito dal Kazakhstan e dall’Uzbekistan. Questi tre paesi si situano tra i primi 20 al mondo per quantità di risorse energetiche accertate. [6]

Ma siccome quest’area è stata relativamente poco esplorata, le sue riserve potenziali possono risultare molto superiori ancora. Ce lo dice con estrema chiarezza il sito (governativo) americano dell’Energy Information Administration: “la regione del Mar Caspio è importante per i mercati mondiali perché ha grandi riserve di petrolio e gas che soltanto ora stanno iniziando ad essere pienamente sfruttate... Benché gli stati che si affacciano sul Mar Caspio siano già primari produttori di energia, molte parti di questo mare e dell’area circostante restano inesplorate... Attraverso l’intervento di ulteriori investimenti stranieri, l’applicazione di tecnologia occidentale, e lo sviluppo di nuovi mercati di sbocco, la produzione di petrolio e gas naturale nella regione del Caspio potrebbe moltiplicarsi”. [7]

Queste parole rappresentano la migliore traduzione pratica della teoria esposta, poco meno di 90 anni fa, da un teorico marxista oggi ingiustamente sottovalutato: “Per il capitale finanziario sono importanti non solo le sorgenti di materie prime già scoperte, ma anche quelle eventualmente ancora da scoprire, giacchè ai nostri giorni la tecnica fa progressi vertiginosi, e terreni oggi inutilizzabili possono domani esser messi in valore, appena siano stati trovati nuovi metodi (e a tal fine la grande banca può allestire speciali spedizioni di ingegneri, agronomi, ecc.) e non appena siano stati impiegati più forti capitali. Lo stesso si può dire delle esplorazioni in cerca di nuove ricchezze minerarie, della scoperta di nuovi metodi di lavorazione e di utilizzazione di questa o quella materia prima, ecc. Da ciò nasce inevitabilmente la tendenza del capitale finanziario ad allargare il proprio territorio economico, e anche il proprio territorio in generale”. [8]

Tornando a noi, aveva quindi ragione quell’uomo d’affari americano che nel 1998 disse: “Non ricordo nessun precedente storico di una regione divenuta così all’improvviso talmente importante da un punto di vista strategico come la regione del Caspio”. L’uomo d’affari in questione era l’attuale vicepresidente USA Dick Cheney, all’epoca presidente e amministratore delegato della Halliburton, una società leader nelle escavazioni petrolifere con forti interessi nell’area, e in particolare in Azerbajian. [9]

Cheney non è l’unico esponente della lobby petrolifera a ricoprire responsabilità di governo nell’ammini­strazione Bush. Condoleezza Rice, consigliere per la sicurezza, è stata dal 1991 al 2000 nel Consiglio di Amministrazione della Chevron (le è stata intitolata anche una petroliera della compagnia): in tale veste è intervenuta in Kazakhstan, dove la Chevron ha importanti interessi (vi ha investito più di 20 miliardi di dollari). Il ministro del commercio, Donald Evans, è stato per 25 anni amministratore della Tom Brown (gas naturale). La sottosegretaria dello stesso ministero, Kathleen Cooper, è stata capo economista della Exxon.

Anche il ministro per l’energia, Spencer Abraham, proviene dal settore. Gale Norton, ministro dell’interno, come avvocato ha difeso la Delta Petroleum (e la sua campagna elettorale è stata finanziata dalla Bp-Amoco). E, dulcis in fundo, tanto Bush padre che Bush figlio sono petrolieri da sempre. [10] Di fronte alla presenza diretta di questo esercito di - chiamiamoli così - profondi conoscitori delle problematiche energetiche, anche il fatto che le compagnie petrolifere abbiano contributo alla campagna elettorale di Bush & C. per 10 milioni di dollari assume una rilevanza secondaria... [11]

2. “La battaglia degli oleodotti” [12]
Che l’Asia Centrale nasconda enormi risorse energetiche è fuori di dubbio. Il problema però è che scoprire nuovi giacimenti di petrolio e di gas naturale non è sufficiente. E non basta neppure riuscire ad estrarre queste risorse energetiche con l’aiuto delle migliori tecnologie. Perché esse diano i profitti desiderati, è necessario poterle trasportare verso i mercati di sbocco - controllandone il percorso. E qui le cose si fanno serie.

Prendiamo il Turkmenistan. Su un sito specializzato americano si può leggere: “il Turkmenistan è l’esem­pio principe di una particolare anomalia che l’industria energetica in passato non si è mai trovata ad affrontare su così vasta scala: una grande regione dotata di enormi risorse in termini di giacimenti, che è isolata ed attualmente non ha un percorso efficiente e sicuro per spedire ciò che ne estrae sui mercati mondiali”. [13]

In verità, a questo problema qualcuno ha pensato. E infatti il 21 ottobre 1995 i dirigenti della compagnia petrolifera americana Unocal e della saudita Delta Oil hanno firmato un accordo con il presidente del Turkmenistan Niyazov [14] che prevedeva la costruzione di gasdotto (del costo stimato di 3 miliardi di dollari) tale da consentire esportazioni di gas naturale del valore di 8 miliardi di dollari. Il gasdotto avrebbe dovuto attraversare l’Afghanistan, per giungere in Pakistan (con una possibile estensione all’India). [15]

Problema: la guerra civile che all’epoca infuriava in Afghanistan, e che divideva le diverse fazioni di mujaheddin e le differenti etnie. Da questo momento i Sauditi cominciano a finanziare massicciamente i Talebani, abbandonando al loro destino le altre fazioni. Anche gli USA manifestano la loro benevolenza con aperture di credito sia in senso proprio che in senso figurato. Ad esempio, Barnett Rubin, specialista di cose afghane del Council of Foreign Relations, nell’ottobre del 1996 afferma - con singolare lungimiranza - che “i talebani non possiedono nessun legame con l’internazionale islamica radicale”! [16] E l’attuale inviato USA in Afghanistan, Zalmay Khalilzad, ancora quattro anni fa scriveva solennemente sul Washington Post che “i Talebani non praticano il genere di fondamentalismo anti-americano in voga in Iran”...

Tra i più entusiasti dei nuovi padroni dell’Afghanistan, ovviamente, c’è proprio la Unocal, il cui vicepresidente, Chris Taggart, nel 1997 ammette che gli esagitati giovanotti “sono utili” e che “la società sta facendo loro donazioni, ma non in denaro” (ossia in armi). [17] Nel novembre dello stesso anno, la Unocal paga 1 milione di dollari per addestrare 137 giovani afghani, presso l’Afghan Studies Center dell’Università del Nebraska, in diverse attività connesse alla costruzione di gasdotti. Ma la simpatia è destinata a durare almeno sino al 1998: il 12 febbraio di quell’anno, il responsabile delle relazioni internazionali di Unocal, John Maresca, riferisce al congresso ed espone dettagliatamente il progetto del gasdotto CentGas. [18]

Ma anche dopo gli attentati alle ambasciate in USA in Africa, e il conseguente attacco missilistico americano alle basi di Bin Laden in Afghanistan (agosto 1998), i rapporti proseguono. Al servizio della Unocal lavorano, tra gli altri, un afgano-americano, il già citato Khalilzad, e anche - ma guarda un po’ - Hamid Karzai, l’attuale capo del governo provvisorio di Kabul. [19] I rapporti di Unocal con i Talebani si interrompono nel dicembre 1998, anche se quelli del governo americano proseguono praticamente sino alla vigilia dell’11 settembre. [20]

Comunque sia, con lo scoppio della guerra le prospettive del gasdotto riprendono quota. Già alla fine di ottobre, infatti, Niyazov dichiara solennemente, in una lettera all’ONU, che il gasdotto “aiuterà a ricostruire il paese, alla normalizzazione della vita pacifica e del lavoro del popolo Afghano, ed anche ad accelerare lo sviluppo socio-economico dell’intera regione circostante”. [21] E sempre alla fine di ottobre il vecchio progetto di Unocal viene discusso ad Islamabad tra il ministro del petrolio pakistano Usman Aminuddin e l’ambasciatore americano Wendy Chamberlain, che rilasciano al termine del loro incontro un allusivo comunicato ufficiale: “il gasdotto dischiude nuove strade ad una coooperazione regionale multidimensionale, soprattutto alla luce dei recenti sviluppi geopolitici nella regione”. [22]

Come è andata a finire, l’abbiamo visto in apertura di questo articolo: il 30 maggio scorso è stato ufficialmente firmato l’accordo tra Turkmenistan, Afghanistan e Pakistan per dare il via al gasdotto. Il gasdotto per trasportare il gas estratto dal Turkmenistan è solo uno dei progetti che riguardano le risorse energetiche dell’Asia Centrale. La stessa Unocal ha progettato un oleodotto, il Central Asian Oil Pipeline, lungo 1.700 km e in grado di collegare Chardzhou in Turkmenistan e l’oleodotto siberiano già esistente da un lato, la costa pakistana che si affaccia sul Mare Arabico dall’altra. Ovviamente, anche in questo caso il passaggio è attraverso l’Afghanistan, ed anzi l’oleodotto sarebbe almeno in parte parallelo al gasdotto già citato. Questo oleodotto sfrutterebbe le risorse petrolifere presenti in Uzbekistan. Anche in questo caso, le prospettive sembrano decisamente migliorate...

Ma attenzione. La “guerra degli oleodotti” non riguarda soltanto l’Afghanistan. [23] Prendiamo il caso del Caspian Pipeline Consortium, una joint venture che ha tra i suoi azionisti la Russia, il Kazakhstan, l’Oman, ChevronTexaco e ExxonMobil. Il CPC ha inaugurato a fine ottobre un oleodotto da 2,65 miliardi di dollari, che collega i pozzi di Tengiz (nel nord del Kazakhstan) al porto russo di Novorossirsk, sul Mar Nero. In questa occasione, Bush ha dichiarato che l’Amministrazione USA ha in mente “un network di oleodotti e gasdotti multipli dal Caspio, che includono gli oleodotti Baku-Tbilisi-Ceyan, Baku-Supsa, Baku-Novorossirsk, e il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum”.

Curiosamente, nel comunicato della Casa Bianca l’oleodotto reale è citato per ultimo, mentre un oleodotto che esiste solo allo stadio di progetto è citato per primo. Ovviamente, non c’è nulla di casuale in questo. Infatti l’oleodotto Baku(Azerbajian)-Tbilisi(Georgia)-Ceyhan(Turchia) è quello che più sta a cuore al governo americano, in quanto non passa per la Russia. Purtroppo, è anche il tracciato più costoso ed antieconomico - sarebbe lungo 2.000 km e passerebbe per zone particolarmente impervie - tant’è vero che ha incontrato l’opposizione anche delle compagnie petrolifere (opposizione che potrebbe peraltro facilmente essere superata prevedendo adeguati sgravi fiscali).

Tra chi è contrario a questo tracciato va annoverato anche il presidente del Kazakhstan il quale, ancora il 9 dicembre 2001, ha detto chiaro e tondo a Colin Powell di essere piuttosto interessato al molto più economico tracciato che passerebbe per l’Iran, sfociando nel Golfo Persico all’altezza del porto iraniano di Kharg Island. Va notato che la partecipazione del Kazakhstan è essenziale, perché le sole risorse azere renderebbero assolutamente antieconomico il progetto Baku-Ceyhan. [24] Nel febbraio scorso il Washington Report on Middle-East Affairs ha pertanto riportato la posizione del Kazakhstan, commentando che l’oleodotto Baku-Ceyhan sembrava definitivamente affondato. L’e­stensore dell’articolo commentava peraltro con un certo stupore l’eventualità che quel progetto fosse sconfitto, dicendo che “quando il gioco si fa duro”, la lobby pro Israele “raramente perde a Washington”. [25]

Cosa c’entra Israele? È presto detto. Israele ha relazioni molto strette tanto con il Turkmenistan e l’Azer­bajian, quanto con la Turchia. Per quanto riguarda il primo aspetto basterà ricordare che l’“ex” agente del Mossad Yousef Maiman, presidente del gruppo israeliano Mehrav, è cittadino onorario del Turkmenistan e personalmente coinvolto nello sviluppo delle risorse di gas della zona. A lui si deve il progetto del percorso Baku-Ceyhan, che eviterebbe sia Iran che Russia. Un’altra società israeliana, la Magal Security Systems, garantirà la sicurezza del tracciato dell’oleodotto.

Per quanto riguarda il legame Israele-Turchia, come è noto si tratta di un asse strategico chiave per il mantenimento del controllo USA sul Medio Oriente. E l’interesse di Israele per questo tracciato è evidente: consentirebbe di approvvigionare Israele stessa anche in caso di crisi con i Paesi produttori di petrolio del Medio Oriente. Non è un caso, quindi, che da diversi anni a questa parte Israele e l’American Israeli Public Affairs Committee stiano facendo una fortissima azione di lobbying per l’oleodotto.

Non è solo questo il punto a vantaggio dell’oleodotto Baku-Ceyhan. Basti pensare che il consorzio, guidato dalla British Petroleum, è rappresentato dallo studio legale Baker & Botts. L’avvocato principale è proprio il James Baker che era già stato segretario di Stato di Bush senior, e che gli è fedele e vicino anche nell’avventura finanziaria del gruppo Carlyle. [26]

Ma il motivo principale è un altro: il progetto Baku-Ceyhan realizza alla lettera il programma espresso da Brzezinsky nel suo libro del 1997 La grande scacchiera. Ecco cosa scriveva l’ex segretario di Stato di Carter (e, per inciso, uno degli ispiratori della politica pro-integralisti islamici degli USA in Afghanistan già prima dell’invasione sovietica): “l’Azerbajian è il tappo della bottiglia che contiene le ricchezze del bacino del Mar Caspio e dell’Asia Centrale (...). Un Azerbajian indipendente, connesso ai mercati occidentali da oleodotti che non passino attraverso il territorio controllato dalla Russia, diventerà anche un’importante via d’accesso delle economie avanzate e consumatrici di energia alle repubbliche dell’Asia Centrale, ricche di energia”. [27]

Ma per quale motivo il controllo delle vie di traffico di gas e petrolio è così strategico per gli USA? Essenzialmente per due motivi.

Il primo è rappresentato dalla necessità di ridurre la dipendenza energetica degli USA dai paesi del Medio Oriente. Non è un motivo da poco. Da questo punto di vista, è nel giusto chi vede in tutte le più recenti iniziative di politica estera americana (in Asia Centrale come in America Latina) principalmente “una strategia tesa al controllo del petrolio mondiale”. Si tratta di una strategia disegnata già nel “Piano nazionale per l’energia”, steso da Cheney (con la consulenza di Enron, la società che ha fatto bancarotta nel novembre scorso) nei primi mesi del 2001. In questo piano era scritto chiaramente: a) che gli Stati Uniti avrebbero dovuto sempre più far ricorso a risorse energetiche provenienti dalla Russia, dagli Stati del mar Caspio e dall’Africa; b) che per avere accesso a queste risorse aggiuntive non sarebbe stato sufficiente far ricorso alle forze spontanee del mercato, ma sarebbe stato necessario un impegno governativo. [28] Impegno poi concretizzatosi: sotto forma di bombardieri e truppe d’assalto...

Ma l’obiettivo di approvvigionare direttamente gli USA non è forse neppure il più importante: da un lato, infatti, una drastica riduzione della dipendenza dal Golfo Persico è impossibile nel breve periodo; e poi, comunque, gli USA hanno importanti produttori di petrolio molto più vicini a casa loro delle steppe dell’Asia Centrale (Canada, Messico, che già forniscono agli Stati Uniti il 40% del loro fabbisogno di petrolio, e Venezuela). [29] Più importante è quindi un secondo motivo: è importante che gli USA controllino e dirigano i flussi di petrolio e gas naturale, dovunque essi siano diretti. E talvolta, del resto, l’importante non è dove queste risorse vanno, ma dove non vanno.

Ad esempio, dal punto di vista degli Stati Uniti è importante innanzitutto che gas naturale e petrolio del mar Caspio prendano strade differenti da quelle prese sinora, ossia è importante che non passino più per la Russia. Qui va notato un aspetto importante: sotto questo profilo gli interessi di potenza della Russia confliggono con quelli delle sue stesse compagnie energetiche. Mentre i primi spingono a mantenere il passaggio sul territorio russo delle risorse dell’Asia Centrale, l’industria russa del petrolio e del gas naturale (che spesso possiede gli stessi oleodotti e gasdotti) spinge per distribuire e promuovere sui mercati internazionali i suoi prodotti. [30]

La circostanza è degna di nota perché attualmente sono proprio i colossi energetici russi (Yukos e Lukoil per il petrolio, Gazprom per il gas naturale) a decidere la politica estera di Putin. Che infatti ha avuto negli ultimi una direzione di marcia chiarissima: proporre la Russia come il grande fornitore sostitutivo di risorse energetiche dell’Occidente rispetto ai Paesi del Golfo Persico. Per questo motivo la Russia (che non fa parte dell’OPEC) ha aumentato la produzione per rompere la politica dei prezzi del cartello OPEC. Per lo stesso motivo non si è - almeno per il momento - opposta ai movimenti USA sugli oleodotti dell’Asia Centrale; la stessa opposizione “storica” all’oleodotto Baku-Ceyhan sembra essere venuta meno.

In secondo luogo, le risorse energetiche non debbono dirigersi verso la Cina. In termini più concreti: deve essere impedita la costruzione di oleodotti e gasdotti che conducano le risorse energetiche dell’Asia Centrale, passando per il Kazakhstan (che confina ad est con la Cina), nello Xinjiang. Non si tratta di progetti fantascientifici: un concreto progetto esiste dal 1997, e dovrebbe essere realizzato sotto l’egida del China National Petroleum Corporation. Va notato che, evidentemente sotto la pressione degli eventi in Asia Centrale, il progetto di gasdotto (lungo 4.000 km) che passando per lo Xinjiang dovrebbe sboccare a Shangai, è stato sbloccato all’inizio di febbraio 2002. E, non a caso, tra le compagnie straniere ammesse nel progetto ci sono la russa Gazprom e l’europea Shell, mentre è stata esclusa nella fase finale l’americana Exxon. [31]

E’ del tutto chiaro che, qualora tale progetto fosse realizzato, esso avrebbe l’effetto non solo di rifornire la Cina di parte dell’energia necessaria per il suo sviluppo, ma anche quello di provocare un riavvicinamento strategico tra Cina, Giappone e Corea. Prospettive, entrambe, molto sgradite agli USA.
Questo, dal punto di vista americano, impone una rotta diversa: gli oleodotti e i gasdotti debbono sboccare nel Golfo Persico. Per poi finire sui mercati in prospettiva più promettenti: quelli asiatici; ma sotto il controllo americano.

Ma anche qui bisogna fare attenzione. Il percorso più breve ed economicamente più conveniente sarebbe quello che dal Turkmenistan porta al Golfo Persico passando per l’Iran. Però lo zio Sam non è d’accordo, perché l’Iran fa parte dell’”asse del male” (o, più probabilmente, viceversa...). E allora (oltre alla rotta che porta in Turchia) resta solo la via che passa per l’Afghanistan. Appunto.

3. Petrolio e guerra: una scoperta tardiva
Sulla base di quanto abbiamo visto, non può stupire che in Asia e in Medio Oriente il nesso tra la guerra americana in Afghanistan e il controllo delle risorse energetiche sia stato, da subito, individuato con estrema chiarezza. L’Asia Times di Nuova Delhi, alla vigilia dell’attacco americano, individuava nel petrolio la chiave della campagna militare che si stava preparando, e affermava senza mezzi termini che un suo successo avrebbe potuto “riconfigurare in misura sostanziale gli scenari energetici per il XXI secolo”. [32] Ancora più esplicito, negli stessi giorni, Abdallah al Emadi, editorialista del quotidiano Arrayah del Qatar: “Oggi l’Ame­rica si appresta a mettere le mani su una regione che non è meno importante del Golfo. E’ la regione del Mar Caspio e del Caucaso, molto ricca di greggio e di gas. Se riuscirà a controllare questa regione, così come è il caso del Golfo, l’America si garantirà il mantenimento della leadership mondiale”. Chiaro, no?

Curiosamente, al riguardo i grandi media americani ed europei avevano le idee molto meno chiare. In effetti, negli USA la giornalista Nina Burleigh il 12 ottobre (quindi a guerra già iniziata) ha potuto affermare che “dall’11 settembre solo due articoli nei media americani hanno tentato di descrivere in che modo Big Oil [ossia le multinazionali petrolifere, n.d.r.] potrebbero trarre beneficio da un repulisti di terroristi e di altri elementi anti-Americani nella regione dell’Asia Centrale”. [33] Uno di questi articoli, scritto a Parigi da un giornalista del gruppo Hearst e ripreso soltanto dal San Francisco Chronicle, era effettivamente piuttosto esplicito: “la posta in gioco che si cela nella guerra contro il terrorismo può essere riassunta in un’unica parola: petrolio. La cartina dei santuari e degli obiettivi dei terroristi nel Medio Oriente e nell’Asia Centrale assomiglia in maniera straordinaria alla mappa delle principali fonti di energia per il XXI secolo. Sarà la difesa di queste risorse energetiche - piuttosto che la semplice sfida tra l’Islam e l’Occidente - a costituire il principale scenario di conflitto globale per i prossimi decenni”. [34]
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In Italia le cose non vanno meglio. Il primo articolo sull’argomento compare il 9 ottobre, ed è di Magdi Allam su Repubblica. Tant’è vero che Curzio Maltese, ancora dieci giorni dopo, poteva affermare che “nel fiume di chiacchiere che ha circondato questa guerra, il petrolio non c’è”, trovando giustamente questo fatto “curioso e sospetto”. [35] In effetti, a guerra già iniziata soltanto il Manifesto fa opera di informazione, e pubblica, a partire dal 12 ottobre, numerosi articoli sull’argomento. [36] Per trovare sui principali quotidiani un articolo ben documentato bisogna giungere al 24 ottobre, quando la Repubblica pubblica un articolo ove si legge tra l’altro che “nei piani di guerra del Pentagono c’è proprio l’occupazione militare di una fascia di territorio afgano che corrisponde al tracciato di gasdotti e oleodotti per trasportare il gas turkmeno e il petrolio uzbeko fino al porto di Karachi [in Pakistan], accessibile all’Occidente”. [37]

Soltanto molto più tardi, il 3 dicembre, è stato possibile leggere sul Sole 24 ore una frase come questa: “poiché la guerra riguarda così da vicino il mondo arabo, l’Oceano Indiano e l’Asia Centrale, sarebbe sciocco pensare che non riguardi anche la politica energetica, specie quella relativa alla gestione delle vitali risorse d’idrocarburi”. [38]

A questa data, però, il principale risultato strategico della “guerra contro il terrorismo” era stato conseguito: la rotta delle risorse energetiche per l’Afghanistan, poteva annunciare il 17 dicembre il Financial Times, “non è più politicamente inconcepibile”. E gli USA avevano ormai saldamente - e irreversibilmente - stabilito la loro presenza in Asia Centrale.

4. “The Yankees are coming”: le basi americane in Asia Centrale
La presenza militare diretta degli Stati Uniti nei Paesi ex sovietici dell’Asia Centrale (ad eccezione del solo Kazachstan) è ormai una solida realtà. Vediamola in dettaglio.

In Kirgizistan gli Stati Uniti hanno installato una base per 3.000 soldati all’aeroporto di Manas, a 30 km dalla capitale. L’articolo con il quale l’Economist del 19 gennaio ha informato della cosa i suoi lettori aveva un titolo significativo: “Arrivano gli Yankees”. Ancora più significativi i contenuti dell’articolo, che tra l’al­tro notava come la decisione americana di dispiegare queste truppe in Kirgizistan fosse stata assunta “in un momento in cui la guerra in Afghanistan era quasi al termine”. Con l’aggravante che, come dichiarato dal Pentagono il 3 gennaio, il dispiegamento americano andava considerato “di lungo termine, non temporaneo”. Ma la circostanza più significativa l’articolo non la notava: ed era il fatto che il Kirgizistan non confina con l’Afghanistan. Confina però con il Kazakhstan, il paese più ricco di risorse energetiche di tutta l’Asia Centrale. E dista 320 km dalla Cina. A Mosca ovviamente la notizia non è stata presa bene, tanto che la Russia ha subito minacciato di non ratificare un accordo per ristrutturare il debito (di 133 milioni di dollari) del Kirgizistan nei suoi confronti. [39]

Per quanto riguarda l’Uzbekistan, l’interessata amicizia con gli USA è di più lunga data. L’Uzbekistan già da tempo ospita basi americane. Il primo accordo tra USA e Uzbekistan per l’addestramento di truppe uzbeke da parte degli Americani risale infatti al 13 dicembre 1995. Nel 1996 si sono svolte le prime esercitazioni congiunte su territorio uzbeko. Però con la “guerra contro il terrorismo” i legami si sono fatti ancora più stretti: le basi di Khanabad e Kokaida ora ospitano 1.500 soldati americani. E più generosi si sono fatti anche gli aiuti USA: quest’anno ammonteranno a 160 milioni di dollari (il triplo del 2001). L’aiuto più importante che gli USA danno al presidente Karimov è però di un altro tipo: si tratta del compunto silenzio sulle gravissime violazioni dei diritti umani che hanno luogo in questo (come del resto nella più parte dei paesi limitrofi), e dell’assenso alla trasformazione di ogni dissidente in un “terrorista”. [40]

Inoltre Bush in persona ha definito l’Uzbekistan “un partner strategico” e ha ammonito che gli USA “vedrebbero con grave preoccupazione” ogni minaccia alla sicurezza dell’Uzbekistan. In verità, come spesso accade quando si dicono queste cose, è l’Uzbekistan a minacciare i paesi confinanti (Tajikistan e Kirgizistan). Comunque, sulla base di questi presupposti, come meravigliarsi del fatto che il buon Karimov abbia dichiarato che la presenza USA in territorio uzbeko per quanto lo riguarda “non è a termine”?

Anche il Tajikistan (che ha 500 km di confine con la Cina...) ha offerto agli USA le proprie basi. Già durante la guerra gli USA hanno avuto il permesso di lanciare attacchi in Afghanistan dalle ex basi sovietiche di Dushambe e Kulyab. [41] Ma anche in questo caso la situazione è in ulteriore evoluzione. Il 20 febbraio del 2002 il Tajikistan è entrato a far parte della Partnership for Peace della NATO. Il 18 aprile, al termine di una visita di due giorni del ministro degli esteri tagiko negli USA, il Dipartimento di Stato ha reso pubblico un comunicato congiunto in cui viene espresso l’impegno di stabilire “relazioni qualitativamente nuove e di lungo termine basate su comuni obiettivi” quali “la lotta al terrorismo internazionale” e “il mantenimento della pace e della stabilità ed il rafforzamento della sicurezza nell’Asia Centrale”.

Il significato di queste parole è stato chiaro il giorno dopo, allorché l’agenzia Reuters ha reso noto un memorandum di Bush a Powell ove si legge che “la fornitura di armi e addestramento (defence articles and services) al Tajikistan rafforzerà la sicurezza degli Stati Uniti e promuoverà la pace nel mondo [sic!]”. Per comprendere il carattere provocatorio di tutto questo va ricordato non soltanto che il Tajikistan fa parte della Comunità degli Stati Indipendenti (come del resto tutte le repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale ad eccezione dell’Uzbekistan), ma anche che sul suo territorio stazionano tuttora 19 mila soldati russi, in gran parte schierati lungo i confini con l’Afghanistan. [42]

E veniamo alle pecore nere.

Cominciando dal Turkmenistan, che ha rifiutato di concedere il suo territorio alle forze statunitensi, pur concedendo il diritto di sorvolo per voli umanitari. Ed è stato punito con l’esclusione dai tour organizzati da numerose delegazioni di senatori e deputati americani in questi Paesi, con aiuti americani di entità ridicola (16,4 milioni di dollari nel 2002), e - da ultimo - con una condanna da parte dell’OSCE per “assoluta mancanza di ogni libertà di espressione”. [43] La condanna dell’OSCE probabilmente avrà effetti pratici piuttosto limitati. Più importante è il fatto che gli USA hanno segretamente incontrato oppositori del capo dello stato turkmeno, Saparmurat Niyazov. Tutto questo, nonostante che l’atteggiamento del presidente turkmeno sia favorevole al gasdotto per l’Afghanistan, e che il capitale americano sia già ben presente nel Paese (è tra l’altro presente l’impresa di escavazioni Halliburton).

Evidentemente, però, l’appetito vien mangiando. E allora si sostiene l’opposizione in Turkmenistan. Con quali prospettive? Lasciamo la parola all’istituto di studi che ha dato questa notizia il 21 giugno scorso: “se Niyazov non si alleerà con gli USA, il sostegno all’opposizione diventerà più forte, e ci si potrà attendere qualche forma di pressione da parte americana sul presidente. Ma se Niyazov farà delle concessioni, accettando truppe americane, cambiando le condizioni di investimento in modo da favorire le compagnie straniere, e annunciando qualche riforma di facciata, allora Washington abbandonerà l’opposizione turkmena.” In definitiva, “l’interesse USA nei confronti di essa esprime un più profondo interesse americano nel gas e nel petrolio del Turkmenistan.” [44] Più chiaro di così...

Ma il problema è soprattutto il Kazakistan. Che a gennaio ha addirittura firmato un accordo di difesa con la Cina. [45] In questo caso, vista l’importanza di un Paese che secondo il Financial Times “un giorno potrebbe diventare un incubo per l’OPEC”, [46] e vista l’importanza degli investimenti che il capitale occidentale e statunitense vi ha già effettuato, l’approccio non può essere troppo duro. Bisogna denunciare i “metodi antidemocratici” di Nazarbayev - e anche in questo caso l’OSCE obbediente esegue [47] - ma conviene anche dare qualche contentino. Così, nel mese di marzo è stato comunicato che dal 1° ottobre 2001 il Paese ha ottenuto dal Dipartimento del Commercio USA l’ambito riconoscimento di “paese con economia di mercato”, che consente di rendere inapplicabili nei suoi confronti le leggi antidumping (leggi: dazi).

Lo stesso riconoscimento era stato fornito esattamente un anno prima dall’Unione Europea. E il 1° aprile il ministro degli esteri kazako ha dichiarato la propria disponibilità ad aprire, “in caso di emergenza”, un aeroporto alla coalizione antiterrorismo guidata dagli USA. In apparenza, si tratta di una mossa puramente di facciata (benché comunque 600 voli della coalizione abbiano usufruito dello spazio aereo kazako durante la guerra [48]). E infatti il 27 giugno, durante un’audizione di un alto funzionario del Dipartimento di Stato americano al Senato, è stato detto esplicitamente che il governo americano intende “aumentare il suo sostegno finanziario al processo di sviluppo dei partiti politici in Kazakistan”. [49] Ossia pagare i partiti di opposizione.

Ovviamente, la penetrazione USA nell’area si vale di uno spettro di mezzi che va ben oltre la semplice macchina militare. C’è la guerra di propaganda: ad esempio, il 4 aprile 2002 sono state inaugurate le trasmissioni di Radio Free Europe (accusata dai Russi di sostenere i secessionisti ceceni) su Cecenia e nord Caucaso. Ma sono stati anche raddoppiati i programmi di assistenza economica ai paesi dell’area (da 244,2 milioni di dollari nel 2001 a 408 milioni nel 2002). Ed è stata rilanciata la vendita di armi, eliminando le precedenti restrizioni. [50]

Comunque, la presenza di basi e soldati americani in questi Paesi è il fatto più significativo, e non soltanto da un punto di vista simbolico.

Sulla durata di questa presenza i messaggi che vengono dagli USA sono inequivocabili. Da ultimo Rumsfeld, col suo caratteristico eloquio sempre così ricco di sfumature, ha detto: le truppe americane resteranno “sinché sarà necessario” (24 aprile). Ma già nel dicembre scorso Elizabeth Jones, la vice segretaria di Stato per gli Affari Europei ed Eurasiatici [!!], aveva dichiarato di fronte ad una commissione parlamentare che l’amministrazione Bush sperava che una permanente presenza americana in Asia Centrale desse impulso allo sviluppo economico e sostenesse le riforme democratiche nella regione. A gennaio anche il leader (Democratico) del Senato americano, Tom Daschle, ha dichiarato che “gli USA vedono la loro presenza in Asia Centrale come un impegno di lungo termine che proseguirà anche dopo il completo ritorno della stabilità in Afghanistan”; da questo punto di vista, ha detto Daschle, “il nostro successo militare va visto come l’inizio, non la fine, del nostro sforzo”. [51] Del 30 aprile, infine, è la notizia che il Pentagono sta predisponendo un piano per una presenza militare di lungo termine nell’area. [52]

Quanto agli obiettivi della presenza americana nell’area, il Moscow Times del 13 febbraio non ha dubbi: “Gli Stati Uniti stanno accerchiando la Cina, il solo Paese che potrebbe ingaggiare una lotta economica, politica o militare. Sono già in Corea del Sud, Giappone e Taiwan, mentre l’India è anti-cinese. Resta da coprire un ampio arco - Russia e Asia Centrale”. [53] A queste dichiarazioni ha fatto eco, due mesi dopo, il generale russo Mylnikov, capo del Centro Antiterrorismo della CSI, che ha individuato gli obiettivi americani nel “controllo a lungo termine dei processi politico-militari in Asia Centrale e in stati limitrofi, quali l’Iran e l’Irak”, nonché nella volontà di porre in essere “una misura preventiva contro la Cina”. [54]

In queste affermazioni c’è un non-detto significativo: l’obiettivo dell’accerchiamento USA potrebbe infatti essere la stessa Russia. Qualcuno ha sostenuto esplicitamente proprio questa tesi, ad appena un mese dal­l’i­nizio delle operazioni militari in Afghanistan. “Il grande guadagno per gli USA è l’occasione d’oro di stabilire una presenza militare permanente nell’Asia Centrale, che è ricca di petrolio e che apre la strada ad un’altra regione ricca di risorse, la Siberia. Così, un altro obiettivo potrebbe essere a portata di mano - l’ulteriore balcanizzazione della Russia e delle nazioni dell’Asia Centrale, sino a farne entità simili agli emirati, facilmente controllabili e privi di reale sovranità”. [55]

Dello stesso tenore la Rossiskaya Gazeta del 22 gennaio: al termine delle operazioni in Afghanistan, “la Russia e l’intera ex-Unione Sovietica non solo risultano accerchiate da un anello di basi militari e di intelligence degli USA e della NATO, proprio come 50 anni fa. In più, queste basi hanno ‘messo radici’ direttamente in Asia Centrale”. [56]

Tutto questo - è bene ricordarlo - avviene in una situazione in cui il contenzioso tra i 5 Stati che si affacciano sul Mar Caspio - per il possesso delle risorse che il Caspio contiene - non accenna a risolversi. [57]

5. Conclusioni
La conclusione è obbligata: sotto questo profilo la guerra è stata un vero successo. Essa ha infatti garantito agli USA:

a) un’ipoteca sul controllo del Mar Caspio e dei Paesi dell’Asia Centrale e delle relative risorse energetiche;

b) una presa geopolitica sull’area, con una duplice funzione di contenimento (nei confronti della Russa e della Cina);

c) e, per questa via, una forte riconferma del dominio statunitense a livello mondiale.

Controllo delle risorse energetiche, dominio imperialistico, supremazia militare. Sono punti da sempre all’ordine del giorno della politica estera americana. E da sempre sono tra loro connessi. Non soltanto in Asia Centrale: la presenza delle forze militari americane in prossimità dei luoghi di estrazione delle risorse energetiche e lungo il percorso degli oleodotti, in Asia Centrale come in Medio Oriente, è assolutamente impressionante.

La connessione tra petrolio e dominio imperialistico americano è così espressa in uno degli articoli migliori usciti sulla guerra afghana (non a caso pubblicato da un quotidiano di Hong Kong): "I Talebani non sono mai stati un obiettivo nella "guerra contro il terrorismo". Sono stati soltanto un capro espiatorio - o meglio, un’orda di guerrieri medievali che semplicemente non hanno onorato il loro contratto: inserire l’Afghanistan nell’Oleodottistan. Tutte le potenze regionali sanno bene che l’America è in Asia Centrale per restarci, come Washington stessa è andata ripetendo in queste ultime settimane, e influenzerà o farà azione di disturbo sull’economia e la geopolitica della regione (...). Oleodottistan non è un fine in sé. Il petrolio e il gas non rappresentano l’obiettivo ultimo degli USA. Tutto questo ha come obiettivo il controllo".
Nel suo Monopole, lo scrittore belga Michel Collon ha scritto: "Se vuoi dominare il mondo, devi controllare il petrolio. Tutto il petrolio. Ovunque".” [58]

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[1] La si trova a questa pagina web: http://www.dawn.com/2002/05/31/top11.htm (il sito di informazione DAWN la colloca, giustamente, tra i titoli principali del 31 maggio).

[2] Z. Brzezinsky, La grande scacchiera, 1997.

[3] Accenno qui soltanto a questo tema, che ho trattato più diffusamente in V. Giacché, "La guerra e il suo uso economico", Imperialismo, mondializzazione e guerra, Speciale allegato a l'Ernesto, sett.-ott. 2001, pp. 16-18, e in "Perché la guerra fa bene all'economia", in Proteo, n. 3/2001, pp. 111-116.

[4] W. Maijd, "The New Gold Mines of Central Asia", agosto 2000 (www.institute-for-afghan-studies.org/dev_xyz/pipeline/ goldmines_majid.htm)

[5] D. Tonello, "La nuova frontiera dei petrolieri" in Borsa & Finanza, 22 dicembre 2001; B. Koerner, "What if the Caspian Region were a major Oil Supplier", in Worldlink [si tratta della rivista del World Economic Forum di Davos - quest'anno spostato a New York], 17 gennaio 2002. La stima dell'entità delle riserve petrolifere dell'area è stata fatta dal Dipartimento dell'Energia del governo americano.

[6] Il 17 dicembre il Financial Times ha dedicato un fascicolo al Kazakhstan. L'articolo di apertura recava questo titolo: "Geopolitics and oil focus the spotlight on Central Asia".

[7] E.I.A., Caspian Sea Region, luglio 2001 (www.eia.doe.gov/emeu/cabs/caspian. html). Per dati quantitativi su entità delle risorse e dell'export si vedano le tabelle riportate in www.eia.doe.gov/emeu/cabs/caspgrph. html#TAB2.

[8] V. I. Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1915-6.

[9] Dichiarazioni riportate da M. Cohn, "Cheney's Black Gold: Oil Interests May Drive US Foreign Policy" [!], in the Chicago Tribune, 10 agosto 2000 [!]. Cheney inoltre nel 1994 favorì, in qualità di membro dell'Oil Advisory Board del Kazakhstan, la chiusura di un importante contratto per la Chevron.

[10] J-C. Brisard, G. Dasquié, La verità negata, 2001; tr.it. Ed. Tropea, 2002, pp. 42-43; A. Politi, "Sua Maestà l'oro nero", l'Espresso, 1° novembre 2001.

[11] Hanno contribuito alla campagna elettorale di Bush i presidenti ed amministratori delegati di queste società: Exxon, Philips Petroleum, Mobil, Occidental Petroleum, Texaco (http://democraticleader.house.ogv/uploads/05-16-01EnergySpecialInterest.pdf).

[12] Questa espressione dà il titolo ad un paragrafo del volume di M.-R. Djalili e T. Kellner, Géopolitique de la nouvelle Asie Centrale, Paris, PUF, 2001.

[13] v. http://www.american.edu/projects/mandala/TED/turkmen.htm.

[14] Niyazov è tuttora presidente: e, in base ad una legge che ha fatto promulgare, resterà tale "a vita".

[15] Oil & Gas Journal, 30 ottobre 1995. Cit. in Brisard e Dasquié, op.cit., p. 29.

[16] Intervista a Time, 14 ottobre 1996.

[17] Art. di S. Trippodo, Il Diario della settimana, 8 aprile 1997.

[18] L'audizione è stata tradotta sul Manifesto del 17 ottobre 2001.

[19] le Monde, 13 dicembre 2001. V. anche W. Madsen, "Afghanistan, the Taliban and the Bush Oil Team", 10 gennaio 2002 (http://democrats.com/view.cfm?id=5496) e the Independent, 10 gennaio 2002.

[20] Sull'argomento vedi J-C. Brisard, G. Dasquié, La verità negata, cit.; J. Gelman, "Petrolio, la guerra in una sola parola", tr.it. il Manifesto, 27 novembre 2001; ma soprattutto P. Abramovici, "La storia segreta dei negoziati tra Washington e i taliban", le Monde diplomatique, gennaio 2002.

[21] Lettera alle Nazioni Unite, riportata dal Far Eastern Economic Review.

[22] P. Escobar, "The roving Eye. Pipelineistan, Part 1: The rules of the game", Asia Times, 25 gennaio 2002. Articolo eccellente e molto ben documentato.

[23] Un sunto delle rotte principali si trova in R. Tanter, "La politica degli oleodotti. Petrolio, gas e gli interessi statunitensi in Afghanistan", tr. it.: http:// www.zmag.org/Italy/tanter-oil.htm.

[24] A. Chebotaryov, "Kazakhstan: US pushes Baku-Ceyhan Pipeline", Report on Central Asia, n. 109, 22 marzo 2002. Va detto che le più recenti prese di posizione del Kazakhstan sull'argomento sembrano più caute.

[25] A.I. Killgore, "Kazakhstan Supports Iran Pipeline Route: Is Israel's Turkish Route Doomed?", WRMEA, Special Report, 17 febbraio 2002.

[26] Per queste ed altre notizie vedi P. Escobar, "Pipelineistan, Part 2: The games nations play", Asia Times, 26 gennaio 2002.

[27] Vale la pena di riportare una frase, tratta da una recente agenzia della Reuters, che non ha bisogno di ulteriori commenti: "nel dicembre scorso il Congresso ha votato di sospendere il divieto di fornire aiuti militari americani all'Azerbajian, una potenziale nuova fonte di petrolio" (Reuters del 19 aprile 2002).

[28] M. T. Klare, "Bush's Master Oil Plan", in Pacific News Service, 23 aprile 2002. Nel testo di Cheney vi era uno specifico riferimento all'Azerbajian e alla necessità di costruire nuovi oleodotti verso Occidente.

[29] D. Cave, "Stuck in the Gulf", Salon, 29 ottobre 2001. "Ending the Oil Addiction", New York Times, 18 febbraio 2002.

[30] Per i problemi legati alla distribuzione da parte delle compagnie russe delle risorse dell'Asia Centrale cfr. "Kazakhstan eyes key gas role in Central Asia", in Gulf News, 16 febbraio 2002; e M. Lelyveld, "Kazakhstan: Talk of Oil Pipeline Trhough Afghanistan Seen As Premature", Radio Free Europe, 15 febbraio.

[31] "China wagt sich ein riesiges Gasprojekt", Frankfurter Allgemeine Zeitung, 8 febbraio 2002.

[32] R. Devraj, "The oil behind Bush and Son's campaigns", in Asia Times, 6 ottobre 2001.

[33] L'autrice di questo articolo, che si può leggere sul sito "liberal" www.tompaine.com, non è certamente un'estremista di sinistra: suoi articoli sono stati ospitati sul Washington Post, sul Chicago Tribune, ed è stata inviata in Irak per il settimanale Time ai tempi della guerra del Golfo.

[34] F. Viviano, "Energy Future Rides on U.S. War - Conflict centered in world's oil patch", in San Francisco Chronicle, 26 settembre 2001.

[35] C. Maltese, "Le ragioni del petrolio", in Venerdì di Repubblica, 19 ottobre.

[36] F. Piccioni, "Quanto pesa il petrolio del Caspio", 12/10; "La guerra sul treno della crisi petrolifera" (intervista ad A. Di Fazio), 17/10; "La verità sotto terra" (traduzione dell'audizione di un petroliere americano davanti al Congresso nel 1998), 17/10; M. Dinucci,"Sotto il corridoio afgano", 18/10. Molti altri articoli si sono aggiunti nelle settimane successive.

[37] F. Rampini, "In guerra per il petrolio - l'altra faccia dei raid", la Repubblica, 24 ottobre 2001.

[38] S. Silvestri, "L'America alla ricerca del barile sicuro", il Sole 24 ore, 3 dicembre 2001. Verrebbe da rispondere che è sciocco pensarlo, ma non lo è affatto farlo pensare.

[39] C. Orozobekova, "Kyrgyzstan: Russia calls in its Debts", Report on Central Asia, n. 116, 19 aprile 2002.

[40] A. Taheri, "Der kurze Frühling der Freiheit", Frankfurter Allgemeine Zeitung, 21 dicembre 2001. C. Jakypova, V. Davlatov, "US Campaign Poses Threat to Central Asia", RCA n. 103, 8 febbraio 2002.

[41] M.R. Gordon, C.J. Chivers, "US, Tajikistan make a deal on military cooperation", in San Francisco Chronicle, 5 novembre 2001.

[42] V. Davlatov, "Tajik Tilt Toward US Unnerves Moscow", RCA, n. 99, 18 gennaio 2002.

[43] "Turkmenistan: OSCE Condemns Lack Of Freedom", RFE, 30 aprile 2002.

[44] "U.S. Using Turkmen Opposition To Pressure President", Stratfor.com, 21 giugno 2002.

[45] "China signs defence deal with Kazakhstan", BBC News, 19 gennaio 2002.

[46] Financial Times, 17 dicembre 2001.

[47] B. Pannier,"Kazakhstan: OSCE Has Harsh Words For Treatment Of Independent Media", RFE, 1° maggio 2002.

[48] Xinhua News Agency del 1° aprile. Washington File: "US, Kazakhstan Pledge Cooperation in War Against Terrorism", 28 aprile 2002.

[49] Washington File: "US Continues to Promote Human Rights, Democracy in Central Asia", 27 giugno 2002.

[50] K. Huus, "US arms once-forbidden Eurasia", MSNBC News, 24 aprile 2002.

[51] J.C. Puech, "Central Asia: US Military Buildup Shifts Spheres of Influence", Radio Free Europe, 11 gennaio 2002; J. Bransten, "Central Asia: US Senate Majority Leader Reaffirms Commitment", RFE, 18 gennaio 2002.

[52] R. Burns, "Pentagon considering ways to keep military presence in Central Asia for the long run", Associated Press, 30 aprile 2002.

[53] Dichiarazioni di K. Makiyenko, vicepresidente del Centro russo per l'Analisi delle Strategie e delle Tecnologie, riportate nell'articolo di L. Pronina, "Ivanov: US Will Leave Central Asia", the Moscow Times, 13 febbraio 2002. Anche l'Economist dell'8 giugno scorso ha titolato un suo articolo "La Cina si sente accerchiata".

[54] B. Pannier, "Central Asia: CIS Conducts Massive Military Exercises", RFE, 18 aprile 2002.

[55] K. Talbot, "Afghanistan is Key to Oil Profits", Centre for Research on Globalisation, 7 novembre 2001 (www.globalresearch. ca/articles/TAL111A.html). Si tratta di un articolo molto ben documentato.

[56] S. Ptichkin e A. Chichkin, "From Where Russia is Clearly Visible", Rossiskaya Gazeta, 22 gennaio 2002; v. anche M. Khodaryonok, "Big Brother Dumped for $ 1 Billion", Nezavisimaya Gazeta, 30 gennaio 2002.

[57] L'ultimo trattato, che ripartiva il mare tra URSS e Iran nella misura del 50% ciascuno, risale al 1940. Dalla fine dell'URSS, nel 1991, gli stati rivieraschi sono diventati 5: Russia, Iran, Azerbajian, Turkmenistan e Kazakhstan. Il 24 aprile 2002 è fallito l'ultimo summit tra i 5 Stati. Anche l'ultimo compromesso proposto dall'Iran (con l'appoggio del Turkmenistan) di dividere il Caspio in 5 parti eguali è stato respinto dagli altri 3 stati, che vedono con maggior favore una spartizione sulla base delle coste rispettive: in tal caso all'Iran spetterebbe non più del 13% del mar Caspio. Vedi C. Hoffmann, "Wem gehört das Kaspische Meer?", Frankfurter Allgemeine Zeitung, 24 aprile, e "Caspian Sea summit agrees to disagree", China Daily, 27 aprile.

[58] P. Escobar, "Pipelineistan, Part 2", Asia Times, 26 gennaio 2002, cit.

venerdì 25 marzo 2011

Il potere della disuguaglianza


Il mondo è il delirio che è perchè la sua ricchezza è semplicemente mal distribuita.

Pochissime persone guadagnano più del resto del pianeta.

E' più di 50 anni che il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale seguono la propria "Agenda" a scapito degli esseri viventi e dell'ambiente con la complicità degli apparati corporativi, militari, governativi, ecc..

Questa è la democratica cultura del IV° Reich che ci spacciano quotidianamente come libertà.

Il futuro è nella cooperazione tra esseri umani, mondo animale, vegetale, minerale.

Master Unit! Master Unit! Master Unit!

(^__^)

venerdì 4 marzo 2011

Visione Neoumanista


di Suman Casini

In un mondo sempre più assillato da problemi di ordine planetario, dai crack finanziari al collasso ecologico del pianeta, dalle minacce del fanatismo terrorista alle scie chimiche e le epidemie, la nostra lotta contro il tempo e l’irrazionalità dominata da interessi di parte sembra quella di Davide contro Golia, frutto di un’umanità inconsapevole priva di una visione globale. Ma Davide sconfisse il gigante, quindi anche per noi ci sono buone speranze. Sempre che l’umanità si ravveda e riesca a realizzare una nuova consapevolezza, riflettendo nel mondo la luce della coscienza.

Gli esseri umani di oggi sono il risultato di un lungo processo evolutivo, e anche se la preistoria sembra molto lontana il cervello dell’uomo del terzo millennio porta ancora l’eredità di epoche remote. Condividendo con i rettili del Carbonifero quello che la scienza definisce il “cervello rettile”, con i grandi dinosauri di milioni di anni fa il “cervello limbico” proprio dei mammiferi, e con i primati nostri antenati il “neocortex”, sviluppato in epoche più recenti attorno al cervello limbico.

Oltre a rappresentare le diverse fasi evolutive della nostra specie, la teoria dei tre cervelli di Paul McLean può aiutarci a capire il percorso dell’umanità e le nostre condizioni attuali. Ma può soprattutto fornire elementi importanti per cambiare il nostro futuro. Attraverso le varie zone del cervello la mente esprime diverse funzioni, dalle più grezze e elementari alle più sottili. Il cervello rettile è la sede degli istinti primari, mangiare, dormire, riprodursi, insieme a tendenze e comportamenti primitivi: la territorialità e il possesso, l’inclinazione gerarchica al dominio e alla sottomissione, la ritualità sociale e la resistenza al cambiamento. Aggressività, sesso, potere e paura sono il corollario diffuso nella nostra società, insieme al materialismo sfrenato e una struttura collettiva basata sugli istinti più bassi legati alla sopravvivenza e ai criteri più primitivi di aggregazione sociale. Un’eredità che condiziona ancora pesantemente il cammino dell’umanità trattenendola nell’oscurità.

Il cervello limbico invece è coinvolto nelle emozioni: piacere e dolore, amore e odio, rabbia e attrazione, speranza e sconforto. Anche sentimenti sottili come la gentilezza e la dedizione, l’empatia, la tendenza alla cooperazione e l’unione disinteressata hanno sede nel sistema limbico, responsabile nei mammiferi dell’inizio del comportamento altruistico.

Il terzo cervello o neocortex è il cervello più evoluto proprio degli umani, sede delle funzioni intellettuali e cognitive, della razionalità, dell’analisi e della facoltà decisionale. Il suo potenziale superiore è ancora in gran parte inespresso, ed è usato soprattutto per permettere al cervello rettile di mettere in atto strategie e comportamenti più efficaci. Anche il potenziale di empatia, amore e altruismo del cervello limbico è in gran parte inutilizzato o represso, portando a una sentimentalità egocentrica prevalentemente negativa.

Istinto, sentimento e intelletto. Tre aree cerebrali indipendenti con funzioni diverse e in grado di dominarsi reciprocamente. Ma non bisogna dimenticare che il cervello è solo un organo, usato dalla mente per realizzare le sue tendenze e funzioni. Il prevalere di una sfera sull’altra sarà quindi in base al livello evolutivo dell’individuo, legato al karma di una persona. Questa predominanza si rispecchia anche a livello collettivo, e non ci vuole molto a capire che la società materialista di oggi motivata da una competizione sfrenata è fortemente influenzata dal predominio degli istinti primari. In senso globale il cervello rettile primitivo domina quindi sugli altri, esprimendo livelli evolutivi inferiori caratterizzati dalla ricerca del piacere fisico e del potere sociale. Sostenuto in questo dall’emisfero razionale, che privato del suo potenziale superiore induce all’egotismo e al controllo calcolato.

Ancora oggi l’imperativo territoriale proprio del cervello rettile si rispecchia nel geo-sentimento [1], l’attaccamento che nasce dall’amore per la propria terra, che è alla base di molti problemi sociali e politici del mondo e da sempre divide l’umanità portando a scontri e guerre di ogni tipo. Accompagnato dalla geo-religione, la geo-economia, la geo-sociologia e la geo-politica. Tendenze che costringono la mente umana entro limiti ristretti e riduttivi, gettandola nella schiavitù del dogma e della superstizione.

Il socio-sentimento invece è l’istinto del branco, una caratteristica dominata da una sentimentalità primitiva che oscura l’intelletto e spazia dall’attaccamento alla famiglia, al proprio gruppo sociale e alla propria etnia, fino a abbracciare sfere psichiche e settori sociali sempre più ampi. Portando al gruppismo, al sessismo, al castismo, al comunalismo, al regionalismo e al nazionalismo, accendendo gli animi e facendo sfociare questi impulsi individuali e collettivi nel razzismo e nella violenza distruttiva che vuole a ogni costo annientare il diverso da sé. Una mentalità che oscura il flusso dell’intelletto e genera antagonismo sociale, sfociando nella socio-religione, la socio-economia e la socio-politica.

Sistemi che sostengono esclusivamente interessi di parte, di un territorio contro un altro, di una religione contro un’altra, di un gruppo sociale contro un altro, di un popolo contro un’altro, di un paese contro un’altro, di una razza contro un’altra. Una catena infinita di cause-effetti che ha le sue radici nell’ignoranza e nel prevalere di un sentimentalismo territoriale che diventa odio, di una religiosità che diventa fanatismo, di un potere economico che diventa sfruttamento e annientamento di interi paesi, di un’orgoglio razziale che diventa persecuzione.

Il progresso dell’umanità è quindi bloccato, e questa mentalità basata sul geo-sentimento e il socio-sentimento ha dato origine al fascismo, al nazismo, al capitalismo, all’imperialismo, all’oligarchia e alla burocrazia. Per non parlare della socio-religione, che inculcando il dogma e fomentando l’odio religioso da sempre ha diviso l’umanità creando conflitti sanguinosi e ora scuote il mondo con il pericolo del terrorismo islamico legato al fanatismo religioso, oltre che a interessi economici e politici. Fenomeni sostenuti da varie forme di sfruttamento psichico, culturale, economico e politico, mantenendo non solo il potere di una parte dell’umanità sull’altra, ma anche il potere di una specie su tutte le altre, ponendo l’uomo al centro del suo mondo come dominatore assoluto.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti, o almeno di chi vuole vedere. E all’inizio del terzo millennio occorre davvero un cambiamento globale ispirato a una consapevolezza che abbatta ogni dogma e ogni barriera mentale divisoria e limitativa, rispettando i valori esistenziali fondamentali del prossimo e delle altre specie, riconoscendo nella diversità la vera ricchezza dell’umanità.

L’umanesimo per molti aspetti trascende queste limitazioni e condizionamenti mentali, ma pur includendo i valori umani sostanziali tende a mantenere intatto il potere dell’uomo sul resto della creazione, credendo di poter disporre del mondo vegetale e animale a proprio tornaconto. Un obbiettivo che si è dimostrato a breve termine, creando enorme sofferenza e tornando indietro come un boomerang, portando alla distruzione di molte specie e alla progressiva estinzione delle risorse planetarie. Non capendo che la sopravvivenza della vita stessa su questo pianeta è legata all’equilibrio dei vari mondi che lo popolano e al rispetto dell’unicità nella diversità.

L’essere umano è sulla terra da quasi un milione di anni, ma non è ancora riuscito a realizzare una società umana unita da valori universali accettati da tutti, per il benessere collettivo e nel rispetto del resto della creazione. Il risultato è la frammentazione in tante micro-società sostenute da micro-sentimenti e interessi personali, di gruppo o nazionali, tendendo a dividere la gente invece che unirla e impedendo la realizzazione di una società universale.

“La società umana è una e indivisibile”[2], è questa la visione che occorre proiettare nella psiche collettiva. Non solo. Una nuova umanità consapevole e illuminata deve farsi carico dei problemi globali di questo mondo, ristabilendo l’equilibrio perduto e valori etici che garantiscano a tutti di poter vivere. Realizzando finalmente un sistema economico e sociale che attui un’equa distribuzione delle risorse nel rispetto delle altre specie e in armonia con l’ambiente. L’umanesimo deve quindi elevarsi al suo apice trasformandosi nel Neoumanesimo, ampliando il suo raggio e includendo nella sua visione ogni creatura esistente. E per far questo è necessario il risveglio delle coscienze attraverso lo studio e la conoscenza, consentendo di rifiutare ogni dogma e opporsi alle varie forme di sfruttamento psichico e culturale che impediscono l’evoluzione mentale e spirituale.

Sul sentiero del Neoumanesimo ci sono tre stadi. Il primo è il culto spirituale, che aiuterà a rimuovere i difetti interni ed esterni, agevolando il cammino verso la spiritualità. Un processo fisico-psichico-spirituale[3] che permette una trasformazione sostanziale della vibrazione fisica e psichica dell’essere umano. La realizzazione spirituale è infatti possibile solo se l’energia psichica diventa più sottile, e per far questo è necessario trasformare anche la frequenza vibrazionale del corpo. Il secondo stadio è l’essenza spirituale, cioè la creazione nella mente collettiva dell’umanità di una nuova onda orientata verso la spiritualità e livelli di coscienza superiori, accelerando così il progresso umano. Quando un numero abbastanza grande di individui avrà trasformato la propria coscienza allora, e solo allora, nella mente collettiva dell’umanità ci sarà un’onda spirituale che darà un grande input all’evoluzione umana. Il terzo stadio del Neoumanesimo è la spiritualità come missione, il risveglio della devozione e la realizzazione dell’unione del piccolo sé con il Sé Cosmico. Lo stato più elevato che vedrà l’uomo cittadino del cosmo ispirato dall’amore per tutta la creazione, riconoscendo in ogni cosa il riflesso luminoso del Divino.

Nel suo libro P.R.Sarkar dice: “Il Neoumanesimo darà una nuova ispirazione e fornirà una nuova interpretazione al concetto stesso dell’esistenza umana. Aiuterà la gente a capire che gli esseri umani, in quanto esseri più intelligenti di questo universo creato, dovranno accettare la grande responsabilità di prendersi cura dell’intero universo; dovranno accettare di essere responsabili per l’intero universo”.

Molti si stanno già muovendo in questa direzione, ma per accelerare il progresso umano questo movimento deve diventare sempre più evidente e consapevole, più globale e coordinato, superando le barriere divisorie e combattendo all’unisono tutte le strategie che hanno condizionato e continuano a condizionare l’umanità. Il mondo di oggi è veramente a un bivio. Da una parte il collasso globale che porta alla distruzione e dall’altro un sentiero che porta verso la luce. L’esistenza umana è simultaneamente a tre livelli: fisico, psichico e spirituale. Il vero progresso quindi deve includere ogni sfera dell’essere, illuminando ogni aspetto della vita umana con il balsamo della conoscenza.

Per costruire una società umana ispirata a valori universali sono necessari dei parametri essenziali comuni. Una filosofia spirituale e delle pratiche spirituali che espandano la mente liberandola dai dogmi e dall’ignoranza; una filosofia sociale che inglobi ogni aspetto dell’esistenza in base ai principi dell’uguaglianza sociale e una teoria socio-economica che permetta di mettere in atto tali principi; degli scritti spirituali, filosofici e sociali in grado di elevare l’intelletto umano e offrire gli strumenti per un giusto discernimento; e una guida spirituale capace di elevare la consapevolezza e il livello di coscienza delle persone, guidandole verso la realizzazione del Sé.

Senza la mente il cervello si spenge e senza la guida dell’intelletto la mente segue i suoi istinti più bassi dibattendosi nell’ignoranza. Ma cieca alla luce dell’anima anche la mente intellettualmente più evoluta resta intrappolata nelle catene dell’ego, incapace di trascendere i propri limiti e immergersi nell’infinito Sé interiore, là dove Tutto è Uno e i vari ismi che dividono il mondo si sciolgono come neve al sole. La spiritualità deve quindi diventare la base della vita e investire ogni sfera dell’esistenza, comprendendo che siamo tutti figli dello stesso Padre e realizzando una vera società umana universale per il benessere di tutti.

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[1] Nel suo libro “La liberazione dell’intelletto- Neoumanesimo” (Ananda Marga Edizioni), P.R.Sarkar analizza i vari aspetti del geo-sentimento e del socio-sentimento a livello individuale e sociale, spiegando anche i limiti dell’umanesimo tradizionale e illustrando i valori fondamentali del Neo-Umanesimo.

[2] P.R.Sarkar - Human Society is one and indivisible.

[3] Questo processo è riferito alla pratica dello Yoga, includendo gli aspetti fisici o asana, un’alimentazione senziente vegetariana o vegana e la meditazione.
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Note biografiche
Suman Casini è pittrice, scenografa, insegnante d’arte e di yoga, appassionata studiosa di medicine naturali, floriterapeuta, scrittrice, viaggiatrice... Ha vissuto lunghi periodi in Oriente e da oltre 25 anni pratica lo Yoga e la meditazione. E’ nato così il suo interesse per il vegetarianesimo come scelta di vita, e il libro Seitan Gourmet è il risultato della sua lunga esperienza in vari Centri Olistici tenendo corsi di Yoga e di cucina vegetariana, organizzando seminari e programmi per una cultura neoumanista e uno stile di vita naturale, oltre a cene e festival vegetariani. Vive e lavora a Casale Marittimo, nell’Alta Maremma toscana, dove scrive libri di vario genere.

lunedì 21 febbraio 2011

Il Futuro del Pianeta in Scala Ridotta

Nel golfo del Messico continuano imperterrite le irrorazioni chimiche, per via aerea, del Corexit, un disperdente chimico con molti componenti neurotossici, a scapito di altri prodotti molto meno invasivi disponibili e non utilizzati volontariamente. L’incredibile azione di distruzione sistematica dell’ecosistema in quella parte del pianeta, procede senza che sia possibile renderne pubbliche le conseguenze a causa dell’esistenza di un ‘cordone di sicurezza’ invalicabile ai reporter ufficiali. Solo alcuni eroici blogger locali continuano ad inviare informazioni e video dalla zona del delitto, almeno finché ciò sarà possibile. Nel video che segue, si mostrano immagini eloquenti dei mezzi aerei impiegati per tali irrorazioni, gestite da uno stranissimo ed assai poco democratico connubio tra i militari e le compagnie petrolifere. La sensazione è che ciò che sta avvenendo nel golfo del Messico sia un evento in scala ridotta di quanto accade in tutto il mondo da decenni: scie chimiche, silenzio stampa, presenza di malattie nuove e misteriose, distruzione lenta dell’ecosistema, impossibilità di ottenere informazioni e risposte dalle autorità, crollo dell’economia, impunità, impotenza della popolazione. Ma c'è anche dell'altro assai inquietante ed assai sofisticato, come suggerito dall'autore dell'arguto video (in lingua inglese).



Fonte

venerdì 18 febbraio 2011

Se non ora quando? Ma come si fa a manifestare per queste stupidaggini?


di SOLANGE MANFREDI

Oltre un milione di donne alcuni giorni fa' sono scese in piazza, e non solo donne, mobilitate per difendere i loro diritti e la loro dignità. Che tristezza!
Sono bastate tre veline dei servizi e tre settimane di propaganda sui giornali per muovere la massa. Mai vista una tale mobilitazione, anche per altri e ben più gravi problemi.

Non per la sentenza della Corte Costituzionale che stabilisce che si possono violare i diritti umani di cittadini o gruppi di cittadini e poi coprirli con il segreto di stato; non per la depenalizzazione del colpo di stato; non per aver ceduto la sovranità del popolo ad un organo sovranazionale ed autoreferenziale, ecc..

“Se non ora quando”. A questo grido le donne sono scese in piazza chiedendo le dimissioni di Berlusconi. “Offende l'Italia” si grida nelle piazze. Eh si, offende l'Italia il fatto che il Presidente del Consiglio possa essere indagato per favoreggiamento della prostituzione minorile.

L'Italia invece non si è sentita minimamente offesa dalle indagini che ipotizzavano nei suoi confronti i reati di:
corruzione giudiziaria,
finanziamento illecito ai partiti,
falso in bilancio,
corruzione,
falsa testimonianza,
appropriazione indebita,
frode fiscale,
traffico di droga,
concorso in strage (1992-1993),
concorso esterno in associazione mafiosa,
abuso d'ufficio,
concussione aggravata e minaccia....

Per questi reati no. Nessuno è sceso in piazza. L'essere indagato per questi "reatuccci" non offendeva la dignità della nostra nazione, assolutamente no. Ma l'aver sollazzato il suo real augello con donne consenzienti, questo si, ci offende profondamente.

Non è così. La nostra dignità di donne è stata offesa, e viene offesa quotidianamente, da quelle donne, e sono tante, che litigano per poter andare alle feste di Berlusconi, che sono pronte a qualsiasi acrobazia erotica pur di poter ottenere ciò che non meritano. Berlusconi, come qualsiasi uomo potente, è assediato da donne che sperano di infilarsi nel suo letto per ottenere vantaggi e favori, non ha alcun bisogno di pagarle. Ne approfitta? Probabilmente. Potrebbe astenersi? Si. Il problema è che il presidente Berlusconi le inserisce nelle liste elettorali o a sedere sui banchi del parlamento? Abbiamo avuto, ed abbiamo, “onorevoli” ben più impresentabili, uomini con condanne definitive per reati gravissimi. Ma di più, abbiamo avuto sette volte presidente del Consiglio, otto volte ministro della difesa, cinque volte ministro degli esteri, ecc. Giulio Andreotti che una sentenza passata in giudicato ha riconosciuto reo di "concreta collaborazione" con esponenti di spicco di Cosa Nostra fino alla primavera del 1980.

Le donne che si offrono quotidianamente a Berlusconi non sono donne alla fame che devono piegarsi ai desideri del premier per poter mangiare. Non sono vittime, anzi. Ed è bene che questo sia chiaro a tutti.

Se c'è qualcuno che offende e calpesta la dignità delle donne sono proprie le donne.
Noi ci siano offerte come merce, noi abbiamo fatto a gara per spogliarci sempre di più davanti a calendari, televisione, pubblicità. Noi corriamo a farci rifare le labbra a “canotto” e non certo perché siano belle, ed eleganti (non a caso quando una persona è elegante si dice: quella persona è fine). Le labbra a “canotto” hanno un solo messaggio da inviare al maschio che incontrano, e non è certo quello di trasmettergli la sensazione che da quelle labbra possano uscire discorsi colti ed intelligenti!

Ma il problema è un altro, ed è ancora più grave. Siamo noi. I problemi che abbiamo sono gravissimi ma, davanti a qualsiasi violenza o abuso (i nostri diritti costituzionali vengono calpestati dal governo e dalla comunità europea ogni giorno) restiamo immobili. Poi arriva un burattinaio che, attraverso una campagna mediatica e manipolando le nostre frustrazioni, ci fa scendere in piazza in oltre un milione non per difendere il nostro diritto lavoro, alla salute, all'istruzione, alla giustizia, ma alla dignità delle donne.

E' di questo che, davanti agli occhi del mondo, ci dobbiamo vergognare.
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APPROFONDIMENTO del dottor Penna

mercoledì 16 febbraio 2011

Dove c'è Barilla... c'è amianto!


E’ più facile e veloce bonificare uno stabilimento di 9,58 ettari pieno di amianto o tappare la bocca ad un giornalista scomodo corrompendo Aruba per fargli chiudere il sito?
Per la Barilla evidentemente la seconda ipotesi è stata più conveniente. Forse pensavano che tappando la bocca ad un giornalista non ci sarebbe mai stata una cassa di risonanza… e qui si sbagliavano di grosso perché adesso metteremo in moto la macchina del fango.
La nota holding Barilla, produttrice di "deliziose" merendine, pasta, fette biscottate, snack, pani morbidi, sfoglie e merende varie, ha uno stabilimento a San Nicola di Melfi, in Basilicata. Lo stabilimento è pieno di amianto, ha il tetto fatto di eternit nonostante la legge 257 del 27 marzo 1992 che obbliga alla bonifica. Con tutti i soldi che ha la Barilla, invece di bonificare lo stabilimento, preferisce pagare costose pubblicità che presentano le merendine più “sane” e belle d’Italia.

Il problema dell’eternit è che a lungo andare, si sfibra dando origine a piccolissime scaglie invisibili all’occhio umano. I frammenti volatili, possono, una volta respirati, provocare tumori alle vie respiratorie anche a distanza di anni. In questo stabilimento lavorano oltre 500 persone per un totale di 65 mila tonnellate annue di prodotto alimentare smistato nel nostro Belpaese.

Buone le Nastrine del Mulino Bianco, vero?

Quello è l’unico stabilimento che le produce, quindi se avete mangiato le Nastrine in vita vostra, sappiate che provenivano da uno stabilimento con tetto in eternit e con moltissime probabilità, il tetto vecchio del 1987, sta già facendo svolazzare le piccolissime scaglie di amianto.
Queste non sono mie inchieste, sono inchieste del giornalista Gianni Lannes, un giornalista con la schiena dritta che lavorava per La Stampa. Il suo lavoro è stato bloccato da mazzette e intimidazioni, quindi ha deciso di continuare aprendo un sito tutto suo, un sito libero dove pubblicare le sue inchieste: http://www.italiaterranostra.it/ (LINK)

Mi sono occupata spesso di divulgare i contenuti del sito di Lannes, perché provo una grande stima per il suo lavoro, perché ci conosciamo un pochettino e perché ci siamo sentiti spesso per motivi di “divulgazione”…
Negli ultimi tempi ho trovato il suo sito “spento”, pensavo che forse lo stavano spostando, o stavano facendo modifiche. Ho aspettato, forse troppo. Questa mattina mi sono decisa a prendere il telefono e a chiamarlo; una persona sotto scorta non può sparire per tutto questo tempo e con amara sorpresa ho saputo che il sito è stato rimosso illegalmente.

Qui sotto le parole di Gianni Lannes:
“La Barilla dei noti fratelli delega il professor avvocato Vincenzo Mariconda con studio a Milano per il lavoro sporco. Invece di rimuovere l’amianto fuorilegge (legge 257/1992) che imbottisce lo stabilimento di merendine e biscotti a San Nicola di Melfi in Lucania, tentano illegalmente di far cancellare il sito del giornale online ITALIA TERRA NOSTRA. Invece di denunciare alla magistratura per l’eventuale reato di diffamazione a mezzo stampa, tutto da dimostrare o citarci in giudizio in sede civile per un risarcimento danni, chiedono ad Aruba di oscurarci. Questa è la democrazia di chi è socio degli Anda-Buhrle (dall’anno 1979), noti soggetti trafficanti a livello internazionale di armi e ordigni. Se si tiene ad una voce libera è il momento di agire nel solco della legalità per rivendicare concretamente il diritto alla libertà di espressione. Tra l’altro sul caso sono state presentate diverse interrogazioni ancora senza risposta dal governo Berlusconi. BOICOTTIAMO LA BARILLA. SOS: pubblicate sul web e diffondete le inchieste di ITN sull’amianto alla Barilla di San Nicola di Melfi.”


Intanto quest’articolo girerà il web in lungo e in largo, mi occuperò personalmente con tutte le mie forze di divulgarlo quanto più riuscirò tramite amici, blogger, resistenti, siti e testate giornalistiche. Non è una minaccia, è un avviso. Consiglio alla Barilla di bonificare al più presto perché Gianni Lannes non è solo, e nemmeno io sono sola. La rete fa rete, e sulla Barilla c’è ancora talmente tanto da dire che l’unico modo per tappare le bocche è quello di mettersi in regola!

Buona colazione a tutti.
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FONTE

martedì 1 febbraio 2011

L'ombra della luce


«Non abbiate mai paura dell'ombra: è li a significare che vicino c'è la luce che illumina.» [Ruth E. Renkel]

Non so a voi... ma a me preoccupa cosa sta succedendo nel mondo. La sua struttura capitalistica, i sistemi di controllo, quelli che controllano la mia vita e quelli che vogliono controllarla ancora di più. Siamo veramente liberi? Apparentemente sì... ma io voglio la vera libertà... e anche voi dovreste volerla. Credo innanzitutto che ognuno di noi debba assolutamente sbarazzarsi dell'avidità, dell'odio, dell'invidia, dell'insicurezza, della paura, perchè è questo il modo in cui ci controllano: ci fanno sentire poveri, malati, patetici, piccoli, ecc. di modo che spontaneamente cediamo loro la nostra sovranità, la nostra libertà. Dobbiamo finalmente capire che fino ad ora siamo stati condizionati a livello di massa da coloro che detengono il potere (multinazionali, banche, militari, religioni varie, governi, mass-media). Essi limitano sempre di piu' la nostra libertà manipolando, veicolando e determinando le nostre percezioni, le scelte e le emozioni.

Noam Chomsky, Michael Chossudowsky e molti altri luminari dei nostri tempi lo spiegano molto bene nei loro saggi.
Non è nè un segreto nè un caso che chi detiene il Potere economico detiene anche le maggiori quotazioni in borsa di società che controllano i mass-media. Il vantaggio (loro) è che possono controllare e determinare le nostre emozioni, metterci in vendita, drogarci e alterare i nostri stili di vita e il nostro sentire piu' profondo. Già fin da piccoli siamo lasciati ore ed ore davanti agli schermi televisivi in balia di immagini insensate e violente... per non parlare della montagna di miliardi spesi per la pubblicità, il modo principale con cui la potente macchina del commercio lancia nel nostro subconscio prodotti e messaggi subliminali. E non me lo sto inventando: gli elementi subliminali sono una devastante realtà e sono sovraimpressioni, immagini grafiche nascoste, sottofondi musicali che non sono percettibili a livello conscio ma solamente a livello subconscio, in grado di farci agire come docili pecorelle senza cervello indotte a consumare, reagire e comportarsi secondo voleri prestabiliti. Tutto questo è stato pianificato con cura e attenzione già dagli anni '50 per renderci passivi, ricettivi ai dogmi politici e socio-economici, a prodotti e opinioni.

Forse sfuggire a tutto ciò non è possibile, ma possiamo sicuramente ridurre l'effetto di queste manipolazioni subliminali utilizzando, ad esempio, questi mezzi di comunicazione come estensione della nostra intelligenza creativa!
Quindi, secondo me, è tempo di svegliarsi e prendere una posizione... perchè quando facciamo scelte in sintonia con i veri valori della vita e non con quelli "imposti" dal sistema, non solo costruiamo una vita migliore per noi stessi ma un mondo migliore per tutti. Usciamo da questo meccanismo infame composto da schiavismo, menzogne, paura, classismo e da altri metodi di controllo e trasformiamo il 21esimo secolo in un secolo migliore.

(^__^)

mercoledì 26 gennaio 2011

Il «digitale terrestre» altera le frequenze cerebrali


La CIA, apparato paragovernativo (e paramilitare), è da sempre coinvolta in progetti finalizzati al "controllo mentale". In quest'ambito ha sviluppato già diverse tecnologie e ne è un esempio il famigerato MK Ultra impiegato durante la guerra fredda. Lo studio della mente e delle potenzialità extrasensoriali umane sono oggetto di numerose sperimentazioni fin dai primi anni '40, esperimenti da cui derivano anche le Psy-ops (operazioni psicologiche) tanto care agli strateghi militari e ormai abbondantemente applicate dai governi per influenzare l'opinione pubblica.

Dal blog vocidallastrada cito un passaggio significativo del discorso che il ricercatore lituano Daniel Estulin ha pronunciato di fronte ai membri del Parlamento Europeo, a Bruxelles, rivelando l’intenzione dell’élite finanziaria di far collassare l’economia globale e trasformare il mondo in una corporazione globale, della quale loro ne sono i beneficiari:
«Le operazioni psicologiche a cui siamo sottoposti quotidianamente, gli UFO, il Gruppo Bildeberg, sono argomenti che la maggioranza delle persone ignora o associa a storie di "fantascienza" grazie soprattutto alla sofisticata propaganda mediatica a cui sono costantemente sottoposte. Infatti, se da una parte numerosi film e serie televisive contenenti brandelli di verità vengono programmati con lo scopo di testare e pilotare culturalmente gli spettatori proiettandoli in realtà futuribili, dall'altra forniscono gli elementi per poter screditare facilmente eventuali fughe di notizie e proteggere le operazioni in corso.
Ovviamente, in quanto strumenti fondamentali per la manipolazione, la "macchina" di Hollywood e tutti i media mainstream che diffondono informazioni sono sempre stati al servizio dell'Elite. Elite che, grazie alla conoscenza della cultura esoterica e al genio di numerosi scienziati (non sempre consenzienti), ha distrutto, cancellato, rimodellato, corrotto, ucciso, perseguitato, inquinato, ingannato, sfruttato e perpetrato ogni sorta di abominio.»

Ora grazie alla tecnologia detta "digitale terrestre", imposta su larga scala mondiale per il "bene" del telespettatore (in Italia è di imminente attuazione), questa politica di accentramento del potere basata sulla distorsione della verità continuerà più potentemente. Dice a tal proposito il ricercatore A. Bosman in un'interessante intervista comparsa sul numero 32 di Scienza & Conoscienza:
"Esistono numerosi studi sulla sensibilità della ghiandola pineale ai campi elettromagnetici e le misurazioni EEG (elettroencefalogramma) hanno mostrato chiaramente che le nostre onde cerebrali vengono alterate. Per la salute neurale generale, le nostre onde cerebrali si abbassano a una frequenza alfa di 8Hz una volta ogni 30 secondi. La televisione tradizionale inducendo una risonanza di 24Hz 0gni mezzo minuto fa in modo che l'abbassamento regolare a 8Hz sia sostituito da una frequenza più alta, portando il "soggetto telespettatore" ad una lieve forma di trance ipnotica. La tv digitale altera la frequenza addirittura a 30Hz ogni 30 secondi facendo sì che l'influenza delle microonde sia molto più complessa e preoccupante per la nostra salute psico-fisica, portando il "soggetto telespettatore" ad una forma di trance ipnotica più forte."

Come al solito voglio ricordare che lo scopo di questo blog è quello di condividere, informare, argomentare e fornire spunti di riflessione su tematiche non trattate dai media ufficiali (chissà come mai, eh?) per affrontare, apprendere e comprendere certi meccanismi delicati e complessi dei tempi che stiamo vivendo.


APPROFONDIMENTI:
- ogni parola "rossa" del post collega ad un link di approfondimento;
- interessante intervista sul Club Bildeberg al ricercatore Daniel Estulin
- The secrets of mind control

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venerdì 14 gennaio 2011

Sai come vive e cosa mangia il pollo che mangi?


Il 26 agosto del 1789, in piena Rivoluzione francese, venne emanata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Dopo duecento anni e innumerevoli passi avanti sulla strada del “progresso”, il 15 ottobre del 1978 veniva proclamata a Parigi la dichiarazione universale dei diritti dell’animale con la quale si stabilisce che tutti gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all’esistenza (articolo 1). Nel caso che l’animale sia allevato per l’alimentazione, deve essere nutrito, alloggiato,trasportato e ucciso senza che per lui ne risulti ansietà e dolore (articolo 9).

In quegli stessi anni, gli attivisti animalisti erano molto critici nei confronti dell’allevamento industriale; Ruth Harrison, autore del libro Animal Machines (1964), denunciava i sistemi di produzione intensiva di vitelli, suini e avicoli, rivendicando le cinque libertà dell’animale: alzarsi, sdraiarsi, girarsi, stendere gli arti e pulirsi senza difficoltà.

17 chili a testa
Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso i polli crescevano circa 2 chilogrammi in 63 giorni. Oggi, invece, un pollo industriale (il broiler, una razza appositamente selezionata in relazione alle esigenze dell’allevamento industriale: quantità, velocità, basso costo) è “pronto” in soli 33 giorni: uno sviluppo troppo rapido che ingrossa a dismisura ossa, polmoni, cuore e corpo. «Non ci reggiamo sulle zampe – racconta un pollo moderno – zoppichiamo e stiamo spesso seduti sulle lettiere sporche, molti contraggono malattie alla pelle. Per prevenire le malattie che potrebbero compromettere la nostra vendita, ci imbottiscono di antibiotici» (tratto dal libro Cosa Mangia il pollo che mangi? – Arianna Editrice).

In Italia l’industria del pollo è fiorente – come il viso rubicondo di un simpatico signore dall’accento romagnolo che dagli schermi televisivi ci invita a mangiare insuperabili rollè precotti di tacchino e pratiche cotolette pollo e spinaci. Le aziende riproduttrici sono 250, gli allevamenti 5.586 (che salgono a 8.382 se contiamo anche quelli da uova), gli incubatoi 114; ad essi si aggiungono 116 macelli, 451 laboratori di sezionamento, 158 depositi frigorifero e 55 centri di riconfezionamento (dati aggiornati a giugno 2009, NdR)

Nel 2006, l’industria della carne avicola ha fatturato 2.580 milioni di euro (che equivale al 2,3% del settore alimentare) con 32.836 tonnellate esportate e 6.071 importate (Paesi extra Ue). Si sono allevati 149 milioni di polli distribuiti fra Emilia Romagna (21%), Lombardia (22%), Veneto (26%) e altre regioni (5%). L’intera produzione avicola ammonta a 1.048.800 tonnellate con oltre 400 milioni di capi macellati, di cui 372,19 milioni solo di broiler.
Con un acquisto medio di 2,14 kg e un consumo pro-capite di 17,1 kg (nel resto del mondo è di 12,3) la spesa per l’acquisto di carne avicola copre il 27% della spesa mensile di una famiglia media italiana.

Cotoletta batteriologica
La rivista Altroconsumo, organo dell’omonima associazione di consumatori, ha proposto, nel fascicolo 220 di novembre 2008, un’inchiesta sul pollo d’allevamento: 59 campioni di broiler (acquistati e trasportati in laboratorio con furgoni frigoriferi, per non interrompere la catena del freddo) sono stati sottoposti a dettagliate analisi di conservazione, igiene e patologia.

Il risultato? «Ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli – scrive Altroconsumoe bandire il pollo dalle nostre tavole». La contaminazione batterica presente nella carne è principalmente imputabile alla crescita “esponenziale” a cui sono sottoposti i broiler: gonfiati, appesantiti e incapaci di muoversi, sono esposti a patologie a carico delle zampe e della pelle.
Le analisi hanno evidenziato la presenza di bacilli di salmonella che, se trasmessi all’uomo, provocano febbre, diarrea, dolori muscolari, crampi e vomito.

Il problema delle patologie comincia dall’allevamento e si protrae per tutta la filiera, fino al banco del supermercato: il pollo non deve essere esposto a sbalzi di temperatura e la catena del freddo deve essere sempre efficiente. I campioni analizzati da Altroconsumo sono stati acquistati in diversi punti vendita, nella tradizionale bottega sotto casa e nella moderna distribuzione organizzata: il pollo comprato dal macellaio è risultato migliore di quello del supermercato.

Eppure, in seguito a una ricerca sulla cultura alimentare degli italiani realizzata nel 2007 dall’esperto Daniele Tirelli, è emerso che il consumatore, in termini di sicurezza alimentare, preferisce il pollo della GDO (la grande distribuzione organizzata): circa l’80% degli intervistati è soddisfatto del rapporto qualità-prezzo del pollo del supermercato, non considerando che il basso costo è sinonimo di una filiera inefficiente.

L’inchiesta di Altroconsumo boccia produttori e distributori per scarsa igiene e cattiva conservazione del broiler nei vari passaggi della filiera e fornisce consigli su come evitare i pericoli connessi alle patologie: è preferibile comprare il pollo e consumarlo in giornata, tenerlo in frigorifero coperto con cellophane o all’interno della propria confezione, lavare bene le mani e gli utensili da cucina dopo avere maneggiato il pollo crudo; cucinarlo accuratamente a più di 70 gradi e controllare che non resti crudo.

Vita da allevamento
Oggi inizia a farsi strada una concezione del benessere animale intesa come well-being sia fisico che mentale: deve esserci una condizione di adattamento o armonia fisico-psicologica tra l’organismo e il suo ambiente caratterizzata dall’assenza di privazioni, lesioni, malattie, disturbi comportamentali, stimoli avversi o qualsiasi altra limitazione imposta dall’uomo che influenzi negativamente l’efficienza di un animale.

Le problematiche della salute animale variano, a diversi livelli, in funzione della specie, delle condizioni di allevamento e del grado di intensità. In passato, ad esempio, nel settore avicolo industriale i polli erano allevati in batteria, mentre le galline erano tenute a terra. Ne conseguiva una bassa consistenza della carne da un lato e uova sporche di feci dall’altro che erano la causa primaria di numerose patologie. Recentemente, il pollo è sceso a terra per accrescere la consistenza della carne e la gallina è salita in batteria per ridurre i problemi igienico-sanitari: mentre il pollo può, teoricamente, correre, svolazzare e irrobustirsi per fornirci una carne più sostanziosa, le galline non calpestano più gli escrementi e l’uovo viene deposto su un nastro trasportatore.

Anche il broiler è allevato a terra senza gabbie ma in un ambiente chiuso, controllato da parametri produttivi che puntano alla massima crescita nel minor tempo possibile.
Le critiche nei confronti dell’allevamento industriale sono rivolte ai programmi di alimentazione intensiva e alla continua illuminazione, a cui si associano la poca attività motoria, gli accovacciamenti forzati sulla lettiera, i problemi allo scheletro e alle zampe e le lesioni alla pelle.

La densità dell’allevamento determina la buona salute o meno del pollo ed è la causa primaria dell’aumento del rischio di patologie in caso di cattiva gestione o scorretta alimentazione. Negli ultimi anni, il Comitato scientifico europeo della salute e del benessere animale ha osservato che la crescita esponenziale delle specie animali non va di pari passo con un soddisfacente livello di benessere. Per questo motivo, il 12 luglio 2007 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale comunitaria la direttiva europea 2007/43/CE contenente le norme minime per la produzione della carne avicola, a cui tutti gli stati membri dovranno adeguarsi entro il 30 giugno 2010. L’attenzione dell’UE si è focalizzata sugli allevamenti di tipo intensivo, cioè quegli allevamenti con oltre 500 polli: le nuove regole stabiliscono una densità massima di 33 chilogrammi/ metro quadrato (in Italia lo spazio per la densità è di oltre il 10% in meno, mentre in Danimarca e Olanda si arriva fino a 40-42 kg/m2).

Secondo quanto stabilito dalla normativa, i polli hanno il diritto di avere:
• degli abbeveratoi efficienti e raggiungibili;
• disponibilità del mangime;
• la lettiera asciutta e friabile in superficie;
• una sufficiente ventilazione;
• un basso livello sonoro e una situazione climatica adeguata;
• dei controlli e delle ispezioni due volte al giorno per valutare il loro livello di salute.

Il proprietario dell’allevamento ha l’obbligo di tracciare il sistema produttivo su appositi documenti in cui vanno specificate la dimensione delle superfici occupate, i sistemi di ventilazione, di raffreddamento e di riscaldamento, l’alimentazione e l’approvvigionamento d’acqua, i sistemi di allarme e di riserva in caso di guasti delle apparecchiature, il tipo di pavimentazione e di lettiere usate. La direttiva prevede anche un’appropriata formazione degli operatori avicoli sulla fisiologia (il comportamento e il fabbisogno), sulla manipolazione del pollame (cattura, carico e trasporto), sulla cura di emergenza (uccisione e abbattimento) e sulla bio-sicurezza.

Nonostante questi miglioramenti l’interrogativo sulla qualità della carne di pollo presente sulle nostre tavole permane, e viene spontaneo chiedersi se sia logico e sano consumarne oltre 17 chilogrammi a testa l’anno: forse sarebbe opportuno ridurre i nostri consumi di proteine animali e riscoprire il sapore del pollo ruspante, magari gustato una volta la settimana e non un giorno sì e uno no.

Per imparare a riconoscere un “vero” pollo si trovano utili indicazioni anche in rete: sul sito www.biozootec.it si può consultare il “Manifesto del Pollo ruspante e biologico” che elogia l’allevamento estensivo in quanto capace di coniugare «biodiversità e legame con il territorio, competitività, diversificazione, rintracciabilità, integrità dei suoli e protezione dell’ambiente, salubrità delle carni e resistenza alle malattie».

Articolo estratto dal Consapevole n° 19.

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